Le nostre recensioni
Inside Out
- Regia: Pete Docter - USA 2015.
Non è semplice recensire un film Pixar, dato che la casa di produzione statunitense
continua a mantenere la tacita promessa di realizzare lungometraggi d’animazione 'per tutti'
d'indubbia qualità.
Partiamo allora dall’inizio, e cioè dal cortometraggio – che, come d'abitudine,
precede il lungo –, riguardo al quale chi scrive ha le idee più chiare: "Lava"
(diretto da James Ford Murphy) è un lavoretto mediocre; una storia d'amore 'impossibile'
che ricorda il primo, piccolo capolavoro della Pixar ("Knick Knack", John Lasseter, 1989),
ma senza provocazione. Smielato e privo di sorprese fino alla fine,
risulta addirittura peggio dell'altro corto musicale, il già imbarazzante ""L’agnello rimbalzello"
("Boundin'", Bud Luckey, 2003).
Quindi inizia il film di Pete Docter (lo stesso regista di “Monsters, Inc.” e “Up”),
mostrandoci come la nostra mente è pilotata da sei figure, corrispondenti ad
altrettante emozioni (Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia e Disgusto). Ognuna di esse
manda degli impulsi al corpo, che agisce, provocando così la creazione dei ricordi,
i quali si presentano sotto forma di sfere – un po’ come le predizioni dei precog in
“Minority Report” (Steven Spielberg, 2002). I ricordi più potenti finiscono nella
memoria centrale, mentre gli altri vengono progressivamente accumulati per essere
poi spediti dal quartier generale verso il cervello. “Esplorando il corpo umano”
non sembra poi così lontano.
Cominciamo ad assistere a qualche gag divertente, ma non si è ancora del tutto soddisfatti.
Soprattutto ci si chiede quanto potrà reggere questo meccanismo un po’
ripetitivo. All’improvviso Gioia, che nella mente di Riley (l’undicenne
protagonista ‘umana’ del film) fa da padrona, tenta di impedire che un ricordo
triste entri nella memoria centrale, e finisce così catapultata fuori dal
quartier generale insieme a Tristezza.
La mossa di far cominciare l’avventura è tipica del Pete Docter sceneggiatore.
Ma se in “WALL-E” (Andrew Stanton, 2008) e in “Up” il subentrare dell’azione segnava
la fine della parte migliore e più ambiziosa, per “Inside Out” è il contrario. Quello
che segue (l’odissea nel cervello di Riley) è una sorta di lunga improvvisazione,
che eleva la fantasia e l’inventiva ai massimi livelli. Ecco allora che la fabbrica
dei sogni è Hollywood (ovvio, no?); che esiste un posto (il dimenticatoio) dove
alcuni ricordi ma anche personaggi (come l’amico immaginario di Riley, ossia
Bing Bong) scompaiono per sempre, facendo così sperimentare allo spettatore la
‘morte’ – la quale era stata invece solo potenziale in “Toy Story 3”
(Lee Unkrich, 2010) – in una sequenza (altrettanto) toccante; o che si può
finire in una ‘stanza della concettualizzazione’, dove metaforicamente
l’animazione riflette sulla propria forma (ad esempio il passaggio,
qui invertito, dal 2D al 3D).
Inoltre l’intero film gioca sulla contrapposizione tra l’aspetto cartoonesco dell’interno
(del corpo di Riley) – colori accesi, forme e luci più semplici – e quello iperrealista
dell’esterno: durante la fuga di Riley da casa, la regia imita addirittura lo stile di
una macchina a mano, per avvicinarsi ancor più al cinema dal vero e per dare maggiore
drammaticità.
Quando i veri protagonisti del film sono in fondo delle emozioni, è reso esplicito
l’aspetto meta-emotivo di “Inside Out”. Nonostante sia l’opera inevitabilmente più
‘intellettuale’ finora firmata dalla Pixar, la nuova fatica di Pete Docter sa
divertire e commuovere con sincerità, senza usare i trucchi pavloviani del
tipico blockbuster americano.
Stefano